Giorgio Peretti: traguardo per la Sezione di Verona [intervista integrale]

Giorgio Peretti: traguardo per la Sezione di Verona [intervista integrale]

Intervista a cura di Alice Martini

Giorgio Peretti, assistente in Serie A dal 2013 e appartenente alla Sezione di Verona, ha tagliato il traguardo delle cento partite nella massima serie con la gara del 23 gennaio 2021 Lazio- Sassuolo. Una carriera iniziata più di vent’anni fa nei campi di periferia con gli esordienti.

Come è stata l’emozione della centesima gara?

«Devo dire che più che sentire l’emozione della centesima partita ero ancora molto soddisfatto della chiamata per la 99esima che è stata Inter-Juventus, ma questo mi ha dimostrato ancora di più di aver raggiunto un traguardo nonché un punto di partenza dopo sei anni di Serie A. La soddisfazione maggiore è di avere avuto continuità di partite in questo tempo. Ho avuto la fortuna negli anni di far moltissime partite che considero belle, da Inter-Juventus che citavo prima ma anche il derby Inter-Milan, il derby di Roma la settimana prima, il derby di Genova. Queste sono le gare che ricordo più volentieri, prima di tutto per il pubblico, poi per la posizione delle squadre in classifica e per il momento in cui si arriva a fare determinate partite. Mi ricordo sicuramente la prima, un bellissimo Catania-Udinese, l’anno in cui i siciliani centrarono i preliminari di Europa League, il 16 marzo 2013. A distanza di sette anni mai avrei pensato di arrivare dove sono ora, anche perché a quel tempo ero ancora nell’organico di Serie B».

Abbiamo parlato del pubblico. Com’è ora con gli stadi vuoti?

«Senza pubblico è proprio triste, perché manca l’emozione dell’entrata in campo e i boati dopo i gol, la suspance che può creare un’azione e l’adrenalina e la concentrazione che solo una gara con queste caratteristiche può dare. Bisogna trovare altri modi per concentrarsi e oltretutto senti ogni cosa che succede intorno a te, il silenzio totale è da brividi “al contrario”. E anche i giocatori probabilmente ne risentono, soprattutto a livello di pressione. Il pubblico dà e toglie e questa situazione può aver avvantaggiato alcune squadre rispetto ad altre. Speriamo che quanto prima possano tornare perché vorrebbe dire che la situazione è migliorata».

Come è nata la tua esperienza nel mondo arbitrale?

«Ho giocato a calcio a discreti livelli, nelle giovanili anche di squadre importanti, ma nel contempo avevo invece iniziato ad arbitrare nei post campionati degli esordienti. L'ho fatto per due anni, mi piaceva e mi ero interessato al mondo arbitrale. Così ho cominciato il corso arbitri e nel frattempo continuavo a giocare. Ho dato l’esame il 13 dicembre 1997 e lì ho abbandonato il calcio giocato. Come arbitro ho fatto un anno e mezzo in provincia, quattro in Regione, quattro alla Can D e cinque anni alla Can Pro. Ho cominciato la carriera di assistente in Serie B, dopo i cinque anni di C. Superato il corso per diventare assistente da lì è partita la nuova avventura».

Cosa ti ha fatto decidere di intraprendere quella carriera?

«L’obiettivo era quello di arrivare in Serie A quindi, non avendo più la possibilità di andarci da arbitro per vari motivi, mi sono detto di provare questa nuova esperienza, anche sostenuto dal buon livello di arbitraggio a cui ero arrivato. Sarei entrato in Serie B, con molti altri amici e questo mi ha dato la possibilità di integrarmi da subito. Quello dell’assistente è un ruolo molto diverso dall’arbitro ma la mia è stata una decisione maturata negli ultimi mesi della Serie C e avevo la consapevolezza che quella poteva essere la mia successiva strada. Avevo dei buoni punteggi e ho studiato molto, perché il regolamento è davvero fondamentale, la base imprescindibile da cui partire per capire tutte le situazioni di gara».

Quale tra le due esperienze ti piace di più?

«Non direi proprio così, sono due ruoli completamente diversi. Certo arbitrare mi piacerebbe ancora moltissimo e se potessi farlo oggi lo farei. Sono assolutamente convinto che diventando assistente il mio “occhio” da arbitro si sia affinato ancora di più. Poi io ho vissuto anche due fasi di trasformazione per gli assistenti. Sono arrivato in Serie B in cui ero l’assistente di sostegno all’arbitro e mi veniva richiesta anche una competenza tecnica e questo mi ha avvantaggiato tantissimo fin dall’inizio, questa partecipazione tecnica al gioco mi ha infatti aiutato tantissimo a livello mentale».

E in Serie A?

«Quando sono arrivato in Serie A c’erano anche gli addizionali e lì la parte tecnica mi è stata preclusa per concentrarmi solo sul fuorigioco. Avevo quindi un po’ perso quella che era la mia passione: l’aspetto tecnico, la dinamicità della partita, la lettura della gara e il parlare con l’arbitro per determinati episodi, confrontandoci. Quando poi è arrivato il Var mi si è avverato un sogno e sono tornato all’aspetto tecnico perché quello che ci viene chiesto ora è di intervenire a livello tecnico dove l’arbitro non arriva. Il Var deve essere visto proprio come un paracadute o una rete del circo dei trapezieri, in cui si continua a fare l’esercizio perfettamente e se scivoli c’è una rete che ti salva. Ma non dobbiamo essere consapevoli di questa “rete” e quindi non fare bene l’esercizio. Questo mi ha portato a tornare ad arbitrare e ad avere un confronto con l’arbitro; il massimo per me».

Quindi il Var è stato positivo per te

«Io sono assolutamente pro Var, mi piace e ho imparato a conviverci, non soffro dei suoi cambi di decisione e ben venga per aiutarci. Oggi come oggi le polemiche sono sicuramente interpretate in maniera diversa e questo ti permette di andare a casa tranquillo. Solo l’aspetto tecnico è diverso perché comunque il calcio è fatto di contatti e non tutti sono falli, quindi li va all’interpretazione e la sensibilità dell’arbitro e l'assistente deve adeguarsi a questi sentimenti. Deve sicuramente avere consapevolezza del ruolo che sta svolgendo oppure non è adatto per questa professione. Ovviamente a noi aiutano molto anche gli auricolari, ma anche questi sono pericolosi se non sai confrontarti con l’arbitro. L’aspetto della comunicazione è fondamentale, mai facile e mai banale».

E oltra alla comunicazione, cosa ritieni fondamentale per una buona direzione?

«Prima di tutto la mentalità e la fame di voler arrivare, di pensare sempre alla prossima gara, senza che ciò che fai ti pesi. Serve studio, analisi, autocritica. La seconda prerogativa è l’allenamento e poi lo studio del regolamento, per leggere, interpretare ed essere critico nel “vedere” gli episodi, anche propri. Il confronto e l’autocritica con gli altri  danno poi senso ad un episodio e da esso si impara, vedere gli errori come qualcosa di costruttivo. Non dire “ho sbagliato perché” ma “perché ho sbagliato”, facendo un passo indietro e analizzando l’episodio in tutte le sue sfumature, capendo come sono arrivato all’errore. Il problema di tanti ragazzi è che a volte l’errore non lo superano, invece lo sbaglio fa parte dell’arbitraggio, e da lì si può e si deve ripartire. E’ un lavoro soprattutto di testa, di reagire ai propri sbagli».

Consiglieresti questo percorso?

«Arbitrare è un percorso bellissimo, ma fatto di sacrifici, costanza, lavoro, determinazione e caparbietà e molto altro, però si può arrivare. I giovani hanno generalmente voglia di trovare “tutto e subito” e questo è un percorso lungo, tortuoso che purtroppo è in salita e più si sale, più diventa ripido. I giovani dovrebbero capire che c’è da correre e fare sacrifici per tanto tempo, anche se per me non sono stati sacrifici perché era la mia passione e mi piaceva farlo, anche se ho dovuto rinunciare anche a posizione lavorative per poter realizzare il mio sogno. Ero a un bivio ma ho deciso di scommettere su me stesso. Non ci credo a quelli che dicono che non riescono a gestire gli impegni, io ora sto arbitrando, finchè studio per una laurea, lavoro e ho anche la mia famiglia».

E la tua carriera internazionale?

«Ho debuttato in Champions nel novembre 2019, in team con Rocchi a Stamford Bridge, ed è stata sicuramente la partita che ricordo maggiormente, un’emozione unica. Perché sentire quella musica è proprio da “brividi”. Andare all’estero è bellissimo ma è un’esperienza completamente diversa da come funziona in Italia. L’organizzazione da parte dell’Uefa è ad un altro livello rispetto a qui, in cui vige un livello di rispetto e tutela molto alto, in cui gli stessi giocatori non si preoccupano di chi sia l’arbitro e pensano solo a giocare e mostrare le loro capacità. Proprio perché sono tutti campioni

E l’ambiente del calcio femminile?

«Deve crescere ancora molto, ma che da anni esiste e le evoluzioni delle società di calcio professionistiche e dei campionati sicuramente qualcosa faranno. Poi rispetto ai campionati europei o americano si fa ancora fatica.  Io ho conosciuto delle fortissime arbitro donna e ho avuto la fortuna di dirigere le gare con loro, non hanno nulla da invidiare agli uomini. Quindi se si hanno le capacità tecniche e atletiche sono assolutamente adatte al ruolo, anzi secondo me le donne sotto certi aspetti sono avvantaggiate nel rapporto con i giocatori. Forse non con il pubblico o le persone esterne. Quindi sono assolutamente favorevole che qualcuna arrivi in Serie A».